sabato 25 ottobre 2014

Il Potere dei veleni

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Dipartimento speciale numero 12 - Lubjanka 
Mosca
Giugno 1936

È da lì che si vede la Siberia dice qualcuno, è da lì che si vede tutta l’Unione Sovietica. L’occhio del Grande Fratello non abbassa mai la guardia e osserva senza essere visto. Anche da lì, anche dentro lì, tra i suoi vuoti corridoi di cloroformio e ammoniaca.
Nell’ultima stanza dell’ala ovest del secondo piano ci sono loro, Talmud e Muromtsev, nomi senza volto, con la stessa faccia senza espressione, senza interrogativi e con tutte quelle risposte che non ammettono errori.
Nell’ultima stanza in fondo al corridoio nulla è diverso dal solito. Il rumore di macchine in movimento rompe il silenzio e copre il tintinnio di vetri che proviene dall’armadietto vicino. Tra scritte in cirillico e teschi neri su boccette incolori una mano si muove sicura, afferra una fiala e va via.
Talmud e Muromtsev non hanno bisogno di alzare gli occhi: anche quel giorno qualcuno sta già morendo.



Villa Rjabuschinskij
Mosca
18 giugno 1936

Non aveva voluto toccare cibo. Neanche quel giorno.
Jagoda appariva preoccupato per il suo stato di salute e da settimane, non appena usciva dal Palazzo, gli portava una buona razione di botvin'ja da innaffiare con qualche goccio di kvas. Ma Jagoda non poteva capire come ci sentiva ad essere defraudati del bene più prezioso proprio quando si pensava di averlo messo al sicuro, in cassaforte.
Max era morto da poco, proprio lì a Leningrado, proprio tra i suoi compagni di Lubjanka. Per lui, Maksim Gor'kij, il sangue del suo sangue era caduto lì, anche se era riuscito a fatica a ritornare a Mosca, tra le sue braccia per poi morire di lì a qualche ora.
Una maledizione, la sua. Un padre sopravviveva al figlio per poi vivere il suo stesso calvario. Il medico era stato franco: polmonite catarrale.  
Avrebbe dovuto allontanare la servitù da quella casa. Era pericoloso con quella sua ostinata resistenza alla morte. Sette domestici erano stati infettati ed ora non gli restava che vederli quando salivano a prendere il piatto lasciato intatto sul comodino. Sapeva che, nonostante tutto, non sarebbe stato cestinato.
Finalmente era giorno inoltrato e Mura sarebbe arrivata a breve approfittando dell’assenza di sua moglie. Ultimamente sempre più frequentemente, forse per sfuggire al contagio o, con molta più probabilità, per vedere Jagoda. La loro storia era di dominio pubblico, ma la cosa più che infastidirlo gli evitava la fatica di trovarsi un alibi quando Mura passava.
Se non fosse per quella fronte perlata! Anche senza vedersi, sapeva che la sua cera era peggio degli altri giorni. Scottava e si era risvegliato spossato, con la fatica di aprire gli occhi e con lo stordimento di chi non si è accorto di essersi assopito.
Se ad accudirlo non ci fosse stata la sua “donna di ferro”, avrebbe sospeso la cura. Altro che efficacie, avrebbe osato dire letale, ma la parola gli morì sulle labbra.
In realtà ci aveva pensato già prima di allora, e non una sola volta. Ma ci sono pensieri che non avremmo voglia di sentire, neanche quando a parlare è la voce della nostra coscienza, la parte più intima e istintiva di noi che, senza giri di parole, va dritto al cuore delle cose come della nostra anima.
Non era una certezza, la sua, però a poco a poco si era fatto strada in maniera sempre più smisurato un’inquietante timore. Forse era colpa dei suoi sensi provati e della fragilità che colpisce la mente malata, ma aveva cercato di restare lucido ed osservare ogni gesto, parola, sussurro o non detto che lo circondava. E lentamente l’indizio si era trasformato in sospetto fino a colpirlo in tutta la sua evidenza: qualcuno lo stava avvelenando.
Questo pensiero aveva la forza spaventosa del lampo, eppure dietro l’iniziale terrore risplendeva la placida tranquillità di chi ha trovato nella verità la forza di sopportare il patibolo. Proprio lui che aveva cantato l’odio di classe, aveva puntato la penna contro l’arbitrio del capo, aveva versato fiumi di inchiostro e sudore per demistificare il glorificatore del lavoro forzato, proprio lui che aveva saputo abbassare i toni quando i tempi lo avevano richiesto, adeguarsi al regime e fingere indifferenza verso chi era dall’altro lato del filo spinato, stava di nuovo per voltare pagine.
Da morto sarebbe diventato un giusto, un eletto o un santo; da vivo invece qualcuno ne temeva ancora l’attacco o – e per un attimo il suo sguardo si velò di pianto - senza più alcuna missione da portare a segno.
Finalmente aveva capito. Non gli importava più chi l’aveva tradito, voleva solo assaporare quell’ultimo giorno e sorridere triste al tempo che sarebbe venuto a consacrarlo ai posteri insieme alla gloria del suo assassino.

giovedì 24 aprile 2014

La favola oscura di Stephen King

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Brownfield (Maine)
21 settembre 2000
Pomeriggio

Cappuccetto rosso? Cappuccetto rosso? Su, apri la porta. Su, apri! Non hai sentito il mio toc, toc, toc? Allora vuoi che soffi? Vuoi che faccio puff? Allora devo aprirla io la porta?

È arrivata. Oggi è arrivata e ha bussato alla porta della tua roulotte. Eri qui, da solo, Bryan, e senza timore hai aperto. Ti sei fidato. Che viso aveva? Di un bambino seduto sulla sella del suo triciclo o di un uomo dagli occhi scintillanti? In fondo non poteva che essere giovane la sua età come prematura è stata la sua venuta, Bryan.
Di te, ora, non resta che questa roulotte e una scatola vuota di Fentanyl.

Cappuccetto rosso? Cappuccetto rosso? Su, apri la porta. Su, apri! Non hai sentito il mio toc, toc, toc? Allora vuoi che soffi? Vuoi che faccio puff? Allora devo aprirla io la porta?

Un’estate, ne è bastata una per cambiarti la vita, come un battito di ciglia e niente più. Era lei, ha bussato al tuo abitacolo, ma tu eri troppo distratto per accorgertene.
Il 19 giugno 1999, ricordi? Giusto un anno è passato. Alla radio c’era Bob Dylan e non vedevi l’ora di arrivare a casa. I Boston Red Sox avrebbero vinto, lo sentivi, mentre pregustavi insieme alla vittoria un’American IPA ghiacciata e un doppio cheeseburger per la cena. Ma erano ancora le quattro e la strada da fare troppo lunga, con quell’intenso odore di bistecca che dal frigobar aveva invaso tutto il minivan Dodge blu. Bullet, il tuo incontenibile rottweiler, aveva iniziato ad agitarsi festoso e con un balzo era saltato accanto a te, pronto a seguirne le tracce. Un nome buffo per un cane: Bullet, “proiettile”. Come la sua rapidità nel raggiungere la preda oppure un segnale recondito che non sei riuscito a cogliere?
Era estate e si stava bene, anche a quell’ora, anche con l’impazienza di arrivare presto a destinazione, anche con quel cagnone da calmare.
Ma eri distratto e non ti sei accorto di nulla.

Cappuccetto rosso? Cappuccetto rosso? Su, apri la porta. Su, apri! Non hai sentito il mio toc, toc, toc? Allora vuoi che soffi? Vuoi che faccio puff? Allora devo aprirla io la porta?


Tredici non è mai stato un numero fortunato, Bryan, e ora ne avevi la conferma. L’avevi fatta grossa. Tredici incidenti stradali erano una bella macchia sulla tua fedina penale, soprattutto se il tredicesimo ha un’identità.
Nome e cognome: Stephen King.
Professione: scrittore.
Stato clinico: Superstite.
Il referto medico ti aveva fatto inorridire, un po’ come i suoi romanzi, pensi senza riuscire a sorridere alla sorte.
Polmone destro perforato, gamba destra fratturata in almeno nove punti, colonna vertebrale lesa, quattro costole spezzate e lacerazione al cuoio capelluto.
A te, invece, non restavano che sei mesi al fresco, un anno senza patente e un profondo senso di vertigine.

Cappuccetto rosso? Cappuccetto rosso? Su, apri la porta. Su, apri! Non hai sentito il mio toc, toc, toc? Allora vuoi che soffi? Vuoi che faccio puff? Allora devo aprirla io la porta?

1600 dollari: il prezzo per avere il tuo minivan blu, il tuo frigobar, i tuoi sedili, il tuo parabrezza e i tuoi fanalini.
1600 dollari: il prezzo per un primo passo fuori dal Central Maine Medical Center.
1600 dollari e una vettura distrutta.
Ti sei chiesto: “A quando la prossima seduta psicanalitica?”.

Cappuccetto rosso? Cappuccetto rosso? Su, apri la porta. Su, apri! Non hai sentito il mio toc, toc, toc? Allora vuoi che soffi? Vuoi che faccio puff? Allora devo aprirla io la porta?

Oggi è il 21 settembre e la morte ha bussato alla tua porta.
Eri solo e forse disperato. Da tempo soffrivi di dolori alla schiena. Colpa del peso della tua coscienza? Non lo saprò mai, so solo che oggi è il 21 settembre e tu non ci sei, Bryan.
Ho sentito dire spesso che ad ogni uomo che muore corrisponde un bambino che nasce. Per la cinquantatreesima volta o come la prima, una vita è sempre una vita, no? Anche per uno che si chiama Stephen King e fa lo scrittore.