Mosca
Giugno 1936
È da lì che si vede la Siberia dice qualcuno, è da lì che si
vede tutta l’Unione Sovietica. L’occhio del Grande Fratello non abbassa mai la
guardia e osserva senza essere visto. Anche da lì, anche dentro lì, tra i suoi
vuoti corridoi di cloroformio e ammoniaca.
Nell’ultima stanza dell’ala ovest del secondo piano ci sono
loro, Talmud e Muromtsev, nomi senza volto, con la stessa faccia senza
espressione, senza interrogativi e con tutte quelle risposte che non ammettono
errori.
Nell’ultima stanza in fondo al corridoio nulla è diverso dal
solito. Il rumore di macchine in movimento rompe il silenzio e copre il
tintinnio di vetri che proviene dall’armadietto vicino. Tra scritte in
cirillico e teschi neri su boccette incolori una mano si muove sicura, afferra
una fiala e va via.
Talmud e Muromtsev non hanno bisogno di alzare gli occhi: anche quel
giorno qualcuno sta già morendo.
Villa
Rjabuschinskij
Mosca
18 giugno
1936
Non aveva voluto toccare cibo. Neanche quel giorno.
Jagoda appariva preoccupato per il suo stato di salute e da
settimane, non appena usciva dal Palazzo, gli portava una buona razione di botvin'ja
da innaffiare con qualche goccio di kvas. Ma Jagoda non poteva capire come ci
sentiva ad essere defraudati del bene più prezioso proprio quando si pensava di
averlo messo al sicuro, in cassaforte.
Max era morto da poco, proprio lì a Leningrado, proprio tra i
suoi compagni di Lubjanka. Per lui, Maksim Gor'kij, il sangue del suo sangue era
caduto lì, anche se era riuscito a fatica a ritornare a Mosca, tra le sue
braccia per poi morire di lì a qualche ora.
Una maledizione, la sua. Un padre sopravviveva al figlio per poi
vivere il suo stesso calvario. Il medico era stato franco: polmonite catarrale.
Avrebbe dovuto allontanare la servitù da quella casa. Era
pericoloso con quella sua ostinata resistenza alla morte. Sette domestici erano
stati infettati ed ora non gli restava che vederli quando salivano a prendere il
piatto lasciato intatto sul comodino. Sapeva che, nonostante tutto, non sarebbe
stato cestinato.
Finalmente era giorno inoltrato e Mura sarebbe arrivata a breve
approfittando dell’assenza di sua moglie. Ultimamente sempre più
frequentemente, forse per sfuggire al contagio o, con molta più
probabilità, per vedere Jagoda. La loro storia era di dominio pubblico, ma la
cosa più che infastidirlo gli evitava la fatica di trovarsi un alibi quando Mura
passava.
Se non fosse per quella fronte perlata! Anche senza vedersi, sapeva
che la sua cera era peggio degli altri giorni. Scottava e si era risvegliato
spossato, con la fatica di aprire gli occhi e con lo stordimento di chi non si
è accorto di essersi assopito.
Se ad accudirlo non ci fosse stata la sua “donna di ferro”,
avrebbe sospeso la cura. Altro che efficacie, avrebbe osato dire letale, ma la
parola gli morì sulle labbra.
In realtà ci aveva pensato già prima di allora, e non una sola
volta. Ma ci sono pensieri che non avremmo voglia di sentire, neanche quando a
parlare è la voce della nostra coscienza, la parte più intima e istintiva di
noi che, senza giri di parole, va dritto al cuore delle cose come della nostra
anima.
Non era una certezza, la sua, però a poco a poco si era fatto
strada in maniera sempre più smisurato un’inquietante timore. Forse era colpa
dei suoi sensi provati e della fragilità che colpisce la mente malata, ma aveva
cercato di restare lucido ed osservare ogni gesto, parola, sussurro o non detto
che lo circondava. E lentamente l’indizio si era trasformato in sospetto fino a
colpirlo in tutta la sua evidenza: qualcuno lo stava avvelenando.
Questo pensiero aveva la forza spaventosa del lampo, eppure
dietro l’iniziale terrore risplendeva la placida tranquillità di chi ha trovato
nella verità la forza di sopportare il patibolo. Proprio lui che aveva cantato l’odio
di classe, aveva puntato la penna contro l’arbitrio del capo, aveva versato
fiumi di inchiostro e sudore per demistificare il glorificatore del lavoro
forzato, proprio lui che aveva saputo abbassare i toni quando i tempi lo
avevano richiesto, adeguarsi al regime e fingere indifferenza verso chi era
dall’altro lato del filo spinato, stava di nuovo per voltare pagine.
Da morto sarebbe diventato un giusto, un eletto o un santo; da vivo
invece qualcuno ne temeva ancora l’attacco o – e per un attimo il suo sguardo si
velò di pianto - senza più alcuna missione da portare a segno.
Finalmente aveva capito. Non gli importava più chi l’aveva
tradito, voleva solo assaporare quell’ultimo giorno e sorridere triste al tempo
che sarebbe venuto a consacrarlo ai posteri insieme alla gloria del suo
assassino.
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